antica cittadella
antica cittadella

SANTA MARIA CAPUA VETERE - “Non ho visto nulla, non sapevo nulla”. È la linea difensiva ribadita oggi in aula da Salvatore Cecere, ex agente penitenziario in pensione dal 2022, sentito come testimone nel maxiprocesso sui pestaggi avvenuti nel carcere sammaritano il 6 aprile 2020, nel reparto Nilo.

L’episodio, definito dai magistrati “una mattanza di Stato”, è al centro di un processo con 105 imputati, tra cui decine di agenti della polizia penitenziaria, dirigenti del DAP e medici dell’Asl di Caserta. Cecere era in servizio quel giorno, ma ha sostenuto in aula di non essersi mai accorto delle violenze. Una versione che ha sollevato più di un dubbio e acceso lo scontro con la pubblica accusa.

“Mai entrato al Nilo”

Cecere, che dopo i fatti del 6 aprile era stato indagato (poi archiviato) a seguito delle dichiarazioni di un detenuto che lo aveva visto accedere al reparto, ha confermato di essere rimasto nel suo ufficio e di non essere mai entrato al Nilo. Tuttavia, ha raccontato in aula dettagli inediti mai riferiti durante le indagini, provocando l’immediata reazione della pm Alessandra Pinto, affiancata dalla collega Daniela Pannone e dal procuratore aggiunto Alessandro Milita.

Contraddizioni e "vuoti di memoria"

Durante l’esame, Cecere ha negato di aver visto detenuti feriti o zoppicanti, nonostante in sede d’indagine avesse riferito di alcuni reclusi che “si lamentavano e camminavano male”. In aula ha descritto un solo detenuto “sottobraccio a due agenti, che si dimenava, sputava e urlava parolacce”. Poi ha aggiunto: “L’hanno portato in una camera di sicurezza e sono usciti con una bustina con un cellulare che aveva defecato”.

Il pm ha fatto notare la discrepanza con quanto dichiarato in precedenza: “Perché allora non parlò del cellulare?”. Cecere ha risposto: “Ora me lo sono ricordato”. Ma alle domande su cosa sapesse nei giorni successivi ai pestaggi, ha vacillato: “Che vuole sapere da me, se i detenuti sono stati picchiati?”. Il tono ha spinto il pm a richiamarlo all’ordine: “Si calmi, non può rispondere con una domanda”. Intervento subito condiviso anche dal presidente della Corte d’Assise Roberto Donatiello.

“Dopo il 6 aprile ho saputo che i detenuti avevano fatto casino”

È stata questa l’unica vera ammissione del teste prima di essere congedato. Una testimonianza definita "imprecisa" dalla parte civile, che alimenta ulteriori interrogativi su quella giornata drammatica in cui decine di detenuti, secondo l'accusa, furono sistematicamente picchiati da centinaia di agenti in un’azione punitiva per le proteste legate al Covid-19 dei giorni precedenti.

Il nodo dei tempi e la prescrizione

A margine dell’udienza, il presidente Donatiello ha sollecitato Procura e difese a stilare un cronoprogramma per la restante lista testi, ancora lunga: circa un centinaio di persone devono essere sentite. Una richiesta motivata dalla necessità di accelerare i tempi del processo, alla luce dei rischi di prescrizione per alcuni reati, in particolare le lesioni personali, che potrebbero cadere in prescrizione entro ottobre 2027.

Il maxiprocesso resta sotto i riflettori dell’opinione pubblica, anche per il suo valore simbolico. È la prima volta che un numero così alto di agenti penitenziari viene processato per presunti atti di tortura commessi in un carcere italiano.